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TREEDOM: REGALI ORIGINALI ED ECOSOSTENIBILI

Treedom è un sito di tendenza in questo periodo: si tratta di una piattaforma che permette di regalare, o regalarsi, un albero in un Paese a scelta. Il funzionamento è semplice: basta scegliere la tipologia di albero sul sito, pagando una determinata cifra lo si “acquisterà” e nella vita reale un contadino lo pianterà nel suo terreno. L’utente potrà seguirne la crescita grazie al Diario online, con fotografie scattate dopo il trapianto e aggiornamenti sul meteo della zona.

Potrà inoltre dargli il nome che desidera, affidargli messaggi, e regalarlo a qualcuno. Ciascuna tipologia di albero inoltre è corredata di apposita grafica che elenca i “poteri” della pianta, cioè i benefici che questa può apportare in termini di Sicurezza alimentare (se cioè l’albero è in grado di fornire risorse alimentari in modo costante nel tempo), Assorbimento di CO2 (utilizzabile per “compensare” in modo virtuale le proprie emissioni), Sviluppo economico per il commercio locale, Protezione ambientale (impatto positivo sull’ambiente e interazione virtuosa con altre specie arboree).

Come afferma il sito, il sistema Treedom permette di dare frutti a chi si occuperà di coltivare la pianta, di assorbire anidride carbonica liberando ossigeno, e di rendere il mondo più verde.
Vi è persino l’Oroscopo degli alberi, che ad ogni segno zodiacale assegna una specie arborea in una determinata parte del mondo, si tratti del “tulipano del Nilo” dell’Africa orientale per il leone, della Guava dei paesi tropicali per il sagittario, e così via.

Molto originale anche l’opzione “Foresta”, che in occasione di ricorrenze e feste (matrimoni, compleanni, occasioni da ricordare) permette di piantare alberi da regalare ad amici o parenti, o di farseli regalare dagli invitati.
La community di Treedom è composta da quasi 180.000 persone, da 773 aziende, da oltre 33.000 contadini e da 576.650 alberi: un fenomeno che ci auguriamo possa crescere ancora a lungo, e un’alternativa originale ed ecosostenibile alle solite, inflazionate idee regalo.

Annalisa Boni

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PIANTARE ALBERI NAVIGANDO SU INTERNET, OGGI SI PUÒ CON ECOSIA

Ormai fortunatamente sono sempre più numerosi gli atteggiamenti responsabili che ciascuno di noi può mettere in atto nel proprio piccolo per aiutare l’ambiente. Fare la raccolta differenziata, ridurre l’utilizzo personale di plastica, persino navigare su internet. Avete letto bene: ciò è reso possibile da Ecosia, un browser che promette di piantare alberi grazie alle ricerche degli utenti.

Come per tutti i motori di ricerca, anche gli introiti di Ecosia sono generati dai proventi pubblicitari delle ricerche effettuate. La differenza rispetto agli altri browser, però, è il fatto che la maggior parte di tali profitti viene utilizzata per finanziare programmi di riforestazione in tutto il mondo (ad esempio in Brasile, Burkina Faso, Etiopia, Indonesia).
Fondata nel 2009 in Germania, questa società a scopo di lucro promette di donare almeno l’80% dei propri profitti alla causa della riforestazione di molti punti nevralgici della biodiversità. Con tutte le ricadute positive che tali iniziative hanno sulla popolazione, impiegata ed impegnata attivamente nel progetto (come testimoniato dai numerosi video presenti sul canale Youtube di Ecosia), sulla fauna locale, che può tornare a popolare zone prima inabitabili a causa della desertificazione, e in generale sull’ambiente, con la lotta concreta contro la deforestazione ed il climate change che l’organizzazione porta avanti da anni.

E non è tutto: nelle ricerche compaiono anche link affiliati, denominati “Ecolinks”, che consentono agli utenti di generare donazioni attraverso gli acquisti online. Il programma di “progetti Ecosia” permette agli utenti di votare per decidere come redistribuire i fondi raccolti tra progetti umanitari ed ambientali scelti in precedenza.
Ecosia è inoltre un motore di ricerca CO2 neutrale, in grado di azzerare il 100% delle emissioni di anidride carbonica causate dal server, dall’infrastruttura, dagli uffici e dai dispositivi degli utenti: utilizza infatti un proprio impianto solare e, per di più, sostiene di poter eliminare circa 1 kg di CO2 dall’atmosfera ad ogni ricerca, unicamente grazie agli alberi piantati.
Come inno alla trasparenza, la società pubblica sul suo sito con cadenza mensile tutti i report finanziari e le ricevute degli importi versati per la riforestazione.
Senza spendere un centesimo, dunque, possiamo contribuire a rendere più verde il nostro pianeta. Basta soltanto qualche click. Cosa stiamo aspettando ad installare l’app e ad impostare Ecosia come browser predefinito?

Annalisa Boni

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MODA USA E GETTA: ALTERNATIVE

Abbiamo visto qui l’impatto negativo che la fast fashion ha in termini sociali ed ambientali. Purtroppo, è effettivamente innegabile la comodità di un sistema che produce capi simili a quelli dell’alta moda (è proprio per questo che la moda usa e getta è stata pensata) a prezzi decisamente più abbordabili. Inoltre oggi in quasi tutte le città sono presenti più catene che cambiano assortimento in tempi record, con continue promozioni per rendere appetibili i propri prodotti.

Come in molti altri aspetti, occorre rapportare l’apparente comodità con i retroscena che sono emersi nel corso degli ultimi anni, e per i quali vi rimandiamo all’articolo precedente. Sarebbe quindi saggio interrogarsi su quanto il prezzo basso e il ricambio frequente di questi prodotti siano in grado di compensare le gravi carenze etiche di questo sistema che coinvolge l’intero pianeta.
Le alternative, ovviamente, ci sono. E richiedono un po’ di tempo e impegno (magari anche economico) in più. Ma in un periodo in cui a farla da padroni sono la fretta ed il consumo ossessivo, riscoprire i valori della lentezza, dell’artigianalità e del fair trade potrebbe aiutarci a vincere quel senso di depressione ed ansia che, come è stato dimostrato da studi di psicologia, accompagna l’eccessiva importanza data ai valori materiali.

Ecco allora che tornano alla ribalta (neanche così timidamente, visto l’impulso avuto in questi ultimi anni) il vintage ed il second hand, la ricerca di pezzi interessanti rimessi quasi a nuovo nei mercatini, la modifica di capi che già si possiedono, magari con l’aiuto di una sarta. Ancora, l’artigianato ed il made in Italy, ovviamente dai prezzi non confrontabili con quelli degli indumenti della fast fashion ma che comunque non rappresentano automaticamente spese insostenibili.
Ci si può rivolgere al fair trade e ai brand etici e locali, che producono a breve raggio e i cui lavoratori sono tutelati e pagati equamente.

Certo, si tratta di un cambiamento che deve coinvolgere anche la mentalità e la quotidianità: comprare meno, ma meglio, prestando più attenzione a come verrà sfruttato quel singolo capo, e a come verrà abbinato al meglio con ciò che già possediamo.
Ciò permette di riscoprire l’anima delle cose, si tratti di vestiti vintage ai quali viene data nuova vita, di pezzi artigianali con gestazioni lunghe e laboriose, di prodotti etici in grado di aiutare chi li produce anziché porsi come un vettore di sfruttamento.

Il cambiamento è possibile ed è proprio partendo dalle piccole cose che si può fare la differenza.

Per maggiori informazioni consigliamo la visione del documentario “The True Cost” disponibile ad oggi anche su Netflix

Annalisa Boni

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MODA USA E GETTA: CONSEGUENZE

Fast Fashion (moda veloce): non potrebbe esservi nome più adatto al fenomeno che da circa vent’anni a questa parte sta trasformando radicalmente il mondo della moda.

Da una visione ancora prettamente artigianale, in cui la qualità del prodotto la faceva da padrone, si è passati ad una filosofia che privilegia esclusivamente l’interesse aziendale di enormi multinazionali, che producono a ritmi forsennati capi che ci si aspetta durino non più di qualche mese. Da 2 stagioni all’anno si è passati a produrne 52, con una deflazione del prodotto che ha fatto diminuire sì i prezzi, ma non i costi.

Com’è possibile continuare a produrre a prezzi simili, e con spese rilevanti? L’unica alternativa per i produttori, per evitare la chiusura, è ridurre i margini dell’unico punto flessibile (e fragile) della filiera: il lavoratore. Ecco allora che la maglietta all’ultima moda esposta in un negozio di una grande catena di abbigliamento, e destinata a venire sostituita nell’arco di qualche giorno, porta con sé un retaggio di sfruttamento, bassi salari, rischi per la salute e la sicurezza.

La produzione è stata globalizzata ed esportata nei paesi in via di sviluppo, bacino ottimale per chi cerca lavoratori a basso costo disposti a lavorare in condizioni disumane pur di poter continuare a vivere. Per fare alcuni nomi: Cina, Bangladesh, Cambogia, India. L’argomento è saltato agli occhi dell’opinione pubblica mondiale dopo la tragedia del Rana Plaza a Dhaka, Bangladesh, quando 1129 persone morirono sotto le macerie di un edificio di otto piani. La loro unica “colpa” è stata quella di essersi recate al lavoro ed essersi attenute al divieto di uscire dalla palazzina nonostante le crepe e le numerose segnalazioni fatte fino a quel giorno.

Si è trattato di un’enorme tragedia nella storia della moda, ed ha costituito l’incipit di una serie di inchieste e domande su quale fosse il reale costo di un’industria che mobilita quasi 3 triliardi di dollari l’anno. Introiti enormi, che gravano sulle spalle di lavoratori sfruttati fino allo stremo. Per le multinazionali della moda invece non si pone alcun problema, in quanto essendo al vertice della filiera possono permettersi tranquillamente di spostare la produzione altrove nel caso in cui le pretese di un lavoro “umano” si facessero troppo pressanti. Le “fabbriche sfruttatrici” sono a tutt’oggi ritenute accettabili, e di fatto accettate, perché si pensa creino posti di lavoro a persone senza alternative.

Nella realtà dei fatti queste persone, per la maggior parte donne, (quindi maggiormente esposte al rischio di soprusi) sono i lavoratori tessili meno pagati al mondo (specialmente in Bangladesh) senza avere nemmeno un sindacato forte disposto ad ergersi a difesa dei loro minimi diritti.
E non solo: tale sistema è riuscito a mettere in crisi anche i grandi marchi del prêt-à-porter. Gli stilisti di case anche importanti si trovano a dover produrre a ritmi serrati per cercare di tenere il ritmo dei marchi low cost della fast fashion.

Perché dunque continuiamo a rivolgerci a questo mercato?
Le motivazioni sono tante. C’è ancora chi non sa nulla riguardo a ciò che sta dietro ad un paio di jeans acquistati a poche decine di euro, oppure chi lo sa non se ne cura più di tanto (come si dice, “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”). Ancora, queste aziende sono abilissime nel marketing, con le loro promozioni quasi quotidiane (prendi 2, paghi 1, ad esempio) o il modo con il quale riescono a “vendersi” come imprese attente all’ambiente (il cosiddetto “green washing”, una maschera di finta sostenibilità indossata per nascondere ciò che sta veramente dietro le modalità di produzione).

I pubblicitari di queste aziende stanno cercando (con successo) di collegare il consumo di beni materiali alla felicità. La convinzione più diffusa è che oggi sia importante possedere sempre tantissimi capi, sempre diversi, in linea con un gusto ed una tendenza che variano a velocità incredibili.

In realtà è stato dimostrato come l’attenzione agli aspetti esteriori e materiali porti ad essere più depressi ed ansiosi. C’è poi chi si trincera dietro la credenza che poi tanto gli abiti inutilizzati andranno in beneficenza. In realtà soltanto il 10% dei vestiti che doniamo viene davvero venduto in negozi locali. Il resto viene mandato nei paesi in via di sviluppo, soppiantando i prodotti più costosi delle industrie locali di abbigliamento fino a farle sparire.

Sarebbe poi impossibile ignorare il contributo che l’industria della moda ha nel causare un elevato stress al mondo naturale. Per produrre abbiamo sfruttato all’eccesso le sue risorse, superandone i limiti. Un report delle Nazioni Unite ha segnalato come a questo sistema di produzione siano imputabili il 20% dello spreco globale di acqua, il 10% delle emissioni di anidride carbonica e una produzione di gas serra superiore a tutti gli spostamenti navali ed aerei. L’85% dei vestiti prodotti finisce in discarica, dove impiegherà tempi lunghissimi prima di venire degradato, e soltanto l’1% viene riciclato. La coltivazione del cotone, materia prima per eccellenza di questa filiera, è responsabile per il 24% dell’uso di insetticidi e per l’11% dell’uso di pesticidi.

Oggi sulla Terra l’industria della moda è la seconda più inquinante in assoluto, piazzandosi soltanto dopo quella del petrolio.
Vale davvero la pena di acquistare prodotti a poco prezzo, di qualità scadente, ma con un costo così alto in termini di diritti umani, etica e impatto sull’ambiente?

Per maggiori informazioni consigliamo la visione del documentario “The True Cost” disponibile ad oggi anche su Netflix

Annalisa Boni

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IL CIBO NON SI SPRECA GRAZIE A “TOO GOOD TO GO”

Quella dello spreco alimentare è una vera piaga: si stima che soltanto in Italia siano 10 milioni le tonnellate di cibo sprecato ogni anno, corrispondenti a circa 15 miliardi di euro. Cifre enormi e preoccupanti, specie se considerate a livello individuale: sono 65 i kg di cibo sprecato pro capite in media all’anno, principalmente a causa di comportamenti errati nel consumo degli alimenti, fuori o dentro casa.

Quando si spreca il cibo non è solo l’alimento in sé a finire nella spazzatura, ma anche tutte le risorse necessarie a produrlo, come la terra, l’acqua, il lavoro della manodopera. Come se non bastasse, il cibo sprecato è responsabile dell’8% delle emissioni globali di gas serra. E in un’epoca come la nostra, fortunatamente sempre più attenta a tematiche come la prevenzione degli sprechi e la sostenibilità, tutto questo non può essere accettabile.

Ecco allora che da pochissimo è sbarcata sul mercato digitale italiano l’app Too Good To Go. Questa piattaforma, nata in Danimarca nel 2015 e già diffusa in 10 paesi europei, permette ai proprietari di ristoranti, hotel e supermercati di rimettere in vendita tutto ciò che a fine giornata non è stato venduto, e che pur essendo ancora buono non può essere rimesso in tavola o sui banconi il giorno successivo. Gli avanzi diventano quindi una fonte di guadagno (ovviamente a prezzi ridotti, ma pur sempre meglio dello spreco senza alcun ritorno economico) e le persone che usufruiscono di tale servizio possono risparmiare sull’acquisto di alimenti ancora consumabili e scontati.

Il funzionamento è semplice: a fine giornata ristoratori e venditori preparano apposite “Magic Box” contenenti piatti e prodotti rimasti invenduti; i clienti pagano un prezzo variabile dai 2 ai 6 euro e acquistano “alla cieca”, (ma è presente una sezione “filtro” che permette, ad esempio, di selezionare soltanto cibo vegetariano). Basta geolocalizzarsi utilizzando il gps del proprio cellulare, cercare i locali aderenti, ordinare la Magic Box, pagarla tramite l’app e recarsi a ritirarla nelle fasce orarie indicate per scoprire cosa c’è dentro. Per limitare l’uso degli imballaggi, saranno i negozi stessi a chiedere ai clienti di portare da casa propria contenitori e sacchetti.

I vantaggi di questo sistema sono molteplici: i produttori e negozianti possono guadagnare in termini economici e di nuova clientela, gli acquirenti possono consumare pasti a prezzo ridotto e, secondo la stima dei creatori dell’app, ogni Box acquistata risparmia all’ambiente l’emissione di 2 kg di CO2. Per ora gli esercizi aderenti si limitano a Milano, ma ci auguriamo che questa rete si espanda e che i “Waste Warriors” diventino un esercito sempre più forte e numeroso.

Annalisa Boni

 

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EQUILIBRIO E CONSAPEVOLEZZA: I VANTAGGI DELL’APPROCCIO FLEXITARIANO ALL’ALIMENTAZIONE

Nel campo dell’alimentazione già da qualche anno spopolano definizioni ed etichette: agli ormai noti vegetariani e vegani si sono uniti crudisti, fruttariani, pescetariani (solo per dirne alcuni). A questo elenco di nomi se ne può aggiungere un ulteriore, ad indicare un regime alimentare che tenta di mediare tra alimentazione onnivora e vegetariana: la dieta flexitariana.

Secondo il vocabolario Treccani, flexitariano è “chi predilige seguire un modello di alimentazione di tipo vegetariano, senza rinunciare ad alimentarsi sporadicamente di proteine animali”. Una sorta di compromesso dunque, che ai vantaggi ormai noti di una dieta prevalentemente plant-based unisce quelli di una maggiore flessibilità (da qui il nome della dieta: flexible + vegetarian). Ciò permette di nutrirsi in modo più completo, di variare e sperimentare nella scelta degli alimenti o semplicemente di godersi una cena in compagnia senza sentirsi esclusi, senza stigmatizzazioni o sensi di colpa.

Alla base vi è dunque la dieta vegetariana. A questa vengono aggiunti occasionalmente carne, pollame, pesce, frutti di mare e uova, il tutto il più possibile a km 0, biologico, grass-fed e rispettando il benessere animale. Non è necessario stravolgere totalmente le proprie abitudini alimentari (del resto, numerosi studi dimostrano come siano sempre più evidenti i vantaggi che una dieta ricca di vegetali comporta).

È sufficiente ridurre certi alimenti privilegiandone altri. L’esclusione tendenzialmente non deve essere totale. Questo comporta non solo meno rinunce e restrizioni, ma una maggiore varietà di alternative quando si è fuori casa, nonché il giusto apporto di vitamine (B12, D ecc).

Tra i vantaggi di una simile scelta vi è anche quello ambientale: riducendo il consumo di carne e pesce si va incontro alla necessità di tutelare il nostro pianeta, stravolto dalle conseguenze degli allevamenti e dell’agricoltura e della pesca intensiva.

Non da ultimo, si può aggiungere all’elenco dei vantaggi apportati da questa scelta quello che interessa il portafoglio. Una dieta a base prevalentemente vegetale è, a parte le dovute eccezioni, meno dispendiosa rispetto a una dieta di origine animale di alta qualità. Non ci riferiamo certo, quindi, alla carne e al pesce economici provenienti da allevamenti intensivi, che non vengono presi in considerazione in quest’ambito in quanto paragonabili a cibo spazzatura alla stregua delle merendine piene di grassi idrogenati e zuccheri.

Un flexitariano può dunque essere definito un soggetto attento al contenuto del proprio carrello. I suoi acquisti sono dettati da una scelta consapevole e da una grande attenzione alla salute, all’ambiente e alla provenienza dei cibi che consuma. Il flexitariano rinuncia ad ogni estremismo alimentare e ad ogni forma di ortoressia e persegue logiche dettate da coscienza, empatia, sintonia e responsabilità nei confronti dell’ambiente.

Annalisa Boni

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IL MICROBIOTA UMANO

Per apportare un vero cambiamento sul nostro benessere psicofisico dobbiamo rinforzare il nostro sistema digerente intestinale.

Quindi oggi andremo a parlarvi del Microbiota Umano.

Ma che cos’è? È l’insieme di microrganismi simbiontici accettati dal nostro corpo, che sono collocati nell’apparato digerente nello specifico in bocca, gola, stomaco e intestino, nell’apparato respiratorio  e sulla pelle.

Ognuno di noi possiede un proprio e particolare microbiota che può essere formato da 500 a circa 1000 specie differenti di microrganismi, tra cui batteri, funghi, virus e protozoi. Oggi viene considerato da molti ricercatori come un organo a tutti gli effetti ed  è composto da circa 3,3 milioni di unità genetiche. Le funzioni che svolge tra le tante sono la produzione di metaboliti, la regolazione dell’assorbimento di diversi minerali e la regolazione del sistema immunitario.

La prima esposizione ai microrganismi avviene durante la nascita attraverso il canale del parto. Il microbiota subisce delle variazioni legate al periodo di vita e ovviamente alla nostra alimentazione. La dieta neonatale è tra i fattori più importanti per il suo corretto sviluppo, in questo periodo infatti è possibile modulare la composizione del microbiota intestinale, che varia a seconda dell’alimentazione con correlazione particolare a seconda della posizione geografica.

I fattori modificabili su cui possiamo agire per modificare il nostro microbiota e mantenerlo sano sono quelli ambientali e in particolare la dieta.

Ippocrate diceva “Fa’ che il cibo sia la tua medicina e chi non conosce il cibo non può capire le malattie dell’uomo”.

L’assunzione di alimenti prebiotici è la prima cosa da fare. I prebiotici sono alimenti in grado di nutrire il nostro Microbiota nel miglior modo possibile.

I prebiotici sono alimenti ricchi di fibre ed acidi grassi a corta catena che stimolano un ambiente intestinale sano, incrementano la flora batterica intestinale più favorevole, sostengono il transito intestinale e agevolano la risposta immunitaria. Al loro interno contengono prebiotici : gli yogurt (possibilmente senza zuccheri e conservanti), i latti fermentati in Kefir , formaggi, verdure e vegetali fermentati.

L’assunzione di prebiotici, nello specifico viene utilizzata dal nostro microorganismo probiotico per la propria crescita.

Gli alimenti prebiotici non fermentati, per eccellenza sono: frumento integrale, cipolle, aglio, verdura verde, soprattutto la cicoria, i carciofi e le banane.

Per mantenere il nostro benessere psicofisico dobbiamo creare un equilibrio tra batteri buoni, patogeni e sostanze protettive. Ovviamente  seguendo una varia e bilanciata alimentazione.

Fondamentale per raggiungere il massimo risultato può essere l’aiuto di un professionista della nutrizione.

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I BENEFICI DELLO YOGURT

Gli effetti positivi del cibo fermentato sul nostro organismo sono numerosi, i cibi e le bevande fermentate, infatti, facilitano la digestione e promuovono il benessere dell’apparato digerente. Oggi scopriamo i benefici dello yogurt.

Lo yogurt nasce dall’azione di due microrganismi, il Lactobacillus bulgaricus e lo Streptococcus thermophilus che generano un doppio effetto.

Per prima cosa, incrementano il livello di acidità del latte, trasformando il lattosio in acido lattico, che crea in bocca il tipico sapore acidulo. L’acido lattico è un grande nutriente per le cellule intestinali.

Secondo, lo coagulano lievemente, addensando le proteine come la caseina, provocando nello yogurt l’aspetto cremoso che tutti conosciamo.

Possiamo quindi affermare che  i fermenti lattici aiutano l’apparato digerente e rafforzano conseguentemente il sistema immunitario che opera in gran parte nell’intestino. Inoltre, alle persone che hanno difficoltà nella digestione del lattosio, può rappresentare un grande aiuto per assumere latte.

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I BAMBINI, LO SVEZZAMENTO E LA CODIFICA DEL SAPORE

Quando il bambino nasce entra in contatto diretto, e non più mediato dal corpo della madre, con un mondo nuovo. Attraverso la pelle, la bocca o il naso, il suo sistema immunitario imparerà a riconoscere ciò che sarà da eliminare o da evitare e ciò che sarà utile o da tollerare.

Il neonato inizia ad alimentarsi prima con il colostro poi con un latte materno che cambia e si autoregola in funzione della vita del bambino; ad es. se nasce prematuro, la mamma svilupperà un latte adatto a lui e diverso rispetto al latte di una nascita generata nei nove mesi canonici.

Verrà poi il tempo dello svezzamento e del progressivo distacco dalla mamma. I pediatri consigliano di cominciare lo svezzamento con alimento molto semplici e digeribili. Questi cibi devono essere tritati il più possibile, incrementando gradualmente con il passare del tempo la loro complessità e digeribilità.

In questo periodo e nel resto dell’infanzia si codifica anche la base del gusto, (imprinting) che porterà a preferire alcuni alimenti piuttosto che altri per tutto il resto della vita.

Quale migliore occasione di questa abbiamo per abituare il futuro adulto al gusto acidulo e intenso degli alimenti fermentati e quindi predigeriti? Una buona abitudine che i futuri ragazzi capitalizzeranno per il mantenimento della loro salute, visto che l’uomo è anche quello che mangia!

I nostri predecessori avevano già intuito tante cose che ora vengono dimenticate. A tal proposito voglio citare (non per suggerire un consiglio medico ma per capire qualcosa in più) come le nostre bisnonne in caso di mancanza del latte materno si attivavano adottando svariate strategie.

La prima era di cercare una balia. È bellissimo che oggi le mamme aderiscano ad associazioni come le “banche del latte” per donare ad altri neonati ciò che è impossibile imitare alla perfezione.

La seconda era cercare il latte d’asina perché si era capito che questo era abbastanza tollerabile dal delicatissimo sistema digerente dei neonati.

la terza possibilità era utilizzare del Parmigiano Reggiano molto stagionato grattugiato sciolto in acqua per creare una sorta di latte artificiale fatto in casa.

Questa terza possibilità è interessante perché ci fa capire come le lunghe fermentazioni, unite ad un prodotto di sicura qualità intrinseca, permettano di eliminare il lattosio e di scomporre le proteine del latte in elementi semplici e molto digeribili. In altre parole si trasformava un alimento specie/specifico come il latte per i vitelli in un alimento molto neutro da ogni punto di vista (compreso quello ormonale) con il quale si riusciva perfino a nutrire i neonati!

Osservare la natura, capirla, rispettarla nel suo funzionamento e imparare applicando i suoi principi è la base da cui partire per creare salute e benessere.

 

 

Sandro Santolin

 

L’altra medicina magazine – vivere secondo natura

 

 

 

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L’ALIMENTAZIONE NELLA TERZA ETÀ: STRATEGIE NUTRIZIONALI PER MANTENERE L’EQUILIBRIO

L’anziano spesso tende a ridurre il suo apporto alimentare.

Le cause sono diverse (disturbi del gusto, riduzione dello stimolo della fame, difficoltà meccaniche oggettive causate da diverse patologie).

Mangiando meno il soggetto si indebolisce e inizia la spirale viziosa che mina la sua vitalità. Questi problemi si sommano a carenze digestive sempre più gravi dovute alla perdita di enzimi e di biodiversità del microbiota intestinale.

Ciò avviene a causa di diete monotone, farmaci assunti quotidianamente, carenze enzimatiche e sedentarietà.

La conseguente malnutrizione può avere varie forme, la più rilevante è la malnutrizione proteico calorica. Tale problema è causato da un’insufficiente introduzione di proteine che può avere come conseguenze importanti la degenerazione eccessiva di muscoli e ossa e una risposta immunitaria indebolita.

Questa fase della vita si può affrontare più serenamente adottando strategie adeguate. Una di queste è quella di non far mancare in una dieta variata, ricca di proteine e fibre, l’apporto di alimenti fermentati intensamente. Le fibre fermentate sono fonte di preziosi minerali assimilabili, i quali vengono liberati durante il processo fermentativo da anti-nutrienti (come ad esempio i fitati). I formaggi più stagionati, e quindi più saporiti, magari aggiunti grattugiati in vari piatti, sono fonte di proteine nobili già demolite dalla fermentazione prolungata.

Le verdure come i crauti e le giardiniere lattofermentate sono particolarmente ricche di vitamina C e particolarmente digeribili.

In questa fase della vita Primus può essere un grande aiuto per molte ragioni:

– Ricchezza e completezza proteica (16%)

– Biodisponibilità di preziosi minerali

– Basso impatto glicemico

– Alto livello di digeribilità

– Importante aiuto alla regolarità intestinale

 

Sandro Santolin

 

L’altra medicina magazine – vivere secondo natura